La Divina Commedia

Canto Tredicesimo

Canto XIII, ove tratta de l'esenzia del secondo girone ch'è nel settimo circulo, dove punisce coloro ch'ebbero contra sé medesimi violenta mano, ovvero non uccidendo sé ma guastando i loro beni.



3
Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.


6
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco.


9
Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.


12
Quivi le brutte ArpieLe arpie nella foresta dei suicidi lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.


15
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.


18
E 'l buon maestro "Prima che più entre,
sappi che se' nel secondo girone",
mi cominciò a dire, "e sarai mentre


21
che tu verrai ne l'orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone".


24
Io sentia d'ogne parte trarre guai
e non vedea persona che 'l facesse;
per ch'io tutto smarrito m'arrestai.


27
Cred'ïo ch'ei credette ch'io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.


30
Però disse 'l maestro: "Se tu tronchi
qualche fraschetta d'una d'este piante,
li pensier c' hai si faran tutti monchi".


33
Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e 'l tronco suo gridò: "Perché mi schiantePier della Vigna?".


36
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: "Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?


39
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb'esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi".


42
Come d'un stizzo verde ch'arso sia
da l'un de' capi, che da l'altro geme
e cigola per vento che va via,


45
sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond'io lasciai la cima
cadere, e stetti come l'uom che teme.


48
"S'elli avesse potuto creder prima",
rispuose 'l savio mio, "anima lesa,
ciò c' ha veduto pur con la mia rima,


51
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.


54
Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece
d'alcun'ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece".


57
E 'l tronco: "Sì col dolce dir m'adeschi,
ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
perch'ïo un poco a ragionar m'inveschi.


60
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,


63
che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.


66
La meretrice che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,


69
infiammò contra me li animi tutti;
e li 'nfiammati infiammar sì Augusto,
che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.


72
L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.


75
Per le nove radici d'esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d'onor sì degno.


78
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che 'nvidia le diede".


81
Un poco attese, e poi "Da ch'el si tace",
disse 'l poeta a me, "non perder l'ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace".


84
Ond'ïo a lui: "Domandal tu ancora
di quel che credi ch'a me satisfaccia;
ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora".


87
Perciò ricominciò: "Se l'om ti faccia
liberamente ciò che 'l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia


90
di dirne come l'anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s'alcuna mai di tai membra si spiega".


93
Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
"Brievemente sarà risposto a voi.


96
Quando si parte l'anima feroce
dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.


99
Cade in la selva, e non l'è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.


102
Surge in vermena e in pianta silvestra:
l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.


105
Come l'altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch'alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie.


108
Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l'ombra sua molesta".


111
Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch'altro ne volesse dire,
quando noi fummo d'un romor sorpresi,


114
similemente a colui che venire
sente 'l porco e la caccia a la sua posta,
ch'ode le bestie, e le frasche stormire.


117
Ed ecco due da la sinistra costaErcolano Maconi e Giacomo di Sant'Andrea,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.


120
Quel dinanzi: "Or accorri, accorri, morte!".
E l'altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: "Lano, sì non furo accorte


123
le gambe tue a le giostre dal Toppo!".
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d'un cespuglio fece un groppo.


126
Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch'uscisser di catena.


129
In quel che s'appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.


132
Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.


135
"O Iacopo", dicea, "da Santo Andrea,
che t'è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?".


138
Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo,
disse: "Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?".


141
Ed elli a noi: "O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c' ha le mie fronde sì da me disgiunte,


144
raccoglietele al piè del tristo cesto.
I' fui de la città che nel Batista
mutò 'l primo padrone; ond'ei per questo


147
sempre con l'arte sua la farà trista;
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,


150
que' cittadin che poi la rifondarno
sovra 'l cener che d'Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
151 Io fei gibetto a me de le mie case".
4: l'inizio va a dare incipit a quello che sarà tutto il Canto 13. Dante crea delle immagini pennellate dalle parole articolate e dalla sintassi complessa, proponendo ossessivamente quelle negazioni e l'orrenda oscurità del peccato qui coinvolto che va aldilà di qualsiasi pensiero umano; l'anafora usata va proprio a battere dove lo spiacere di queste anime interessa. Fosco: scuro.
5: schietti: vividi, vivaci. 'nvolti: intricarti, contorti.
6: pomi: frutti. Stecchi: spine, rami spogli. Tosco: tossico, veleno.
7 - 8 - 9: le dimore tra Cecina e Corneto (cioè la Maremma Toscana) di quei cinghiali che odiano i terreni coltivati, non hanno in confronto così fitta boscaglia e così pericolosa fauna.
10 - 11 - 12: brutte: orripilanti, lorde. Arpie: figlie di Taumante ed Elettra, si narra avessero il corpo di uccello e il volto di donna. Il poeta qui ricorda l'episodio dell'Eneide in cui queste rapaci, lordarono le mense dei troiani, nelle Strofadi, di escrementi e gli preannunciarono pene e tormenti futuri.
13: late: larghe. Le immagini delle Arpie sono prese in parte dall'Eneide: per la parte del lezzo che emanano, le mani unghiate, il ventre sporco e il volto pallido dalla fame, tutto contornato dalla voce stridula e strana.
15: strani: l'aggettivo può collegarsi sia ai "lamenti" sia agli "alberi" e in questo sta proprio la capacità del poeta a far intendere quella parola per entrambi così da aumentare lo stupore del lettore.
16: più entre: ti addentri maggiormente.
18: mentre che: finché.
19: sabbione: luogo nel terzo girone del settimo cerchio.
21: vedrai cose che arriverai a non credere a quello che dico.
22: trarre guai: gridare a lamenti.
25: il verso apre in una forma grammaticale e sintattica di difficile comprensione e di ardua espressione, la geniale invenzione che inizia qui è una procedura mentale che Dante vuole imporre al nostro pensiero. In questo Canto ci sono i suicidi, coloro che hanno abbandonato la propria vita e che sia per un motivo o per un altro, non è mai giustificato, quindi il poeta va a forzare la scrittura affinché si ponga il forte dubbio nel lettore di come si possa uccidersi intricandosi nel linguaggio si intrica anche la nostra mente al pensiero di quel momento così atroce. Inoltre la grammatica e il registro qui usati sono ripresi proprio da uno dei maggiori autori dell'ars dictandi, Pier delle Vigna, che qui fa le veci di tutti i suicidi che come lui hanno messo fine al proprio moto sulla Terra per una ragione purtroppo sempre vana. 26: bronchi: sterpi, rovi.
27: a noi fosse non visibile, nascosta; e non "che si nasconde" come potrebbe far premonire il verbo.
30: i pensieri che si faranno tutti rotti, riprendendo con l'aggettivo il verso 28.
32: un gran pruno: in accordo alla grande anima che è accolta in esso, pur però rimanendo un rovo, una pianta miserevole.
33: perché mi schiante?: perché mi spezzi, mi tronchi. Il valore che forte rimane impresso nel leggere questo verso è la capacità di far venire alla luce improvvisamente che la pianta parla e gronda sangue. L'episodio viene ricostruito secondo la visita di Enea alla tomba di Polidoro romanzata nell'Eneide, in cui l'eroe volendo coprire l'altare della sepoltura in segno di omaggio, spezzò alcune fronde e dopo che l'ebbe appoggiate vide colare sangue da loro sentendo anche la voce del morto che gli raccontò la propria tragica fine. Se con Virgilio si vanno ad innescare momenti di mistero e di lirica alta, con Dante si percepisce il senso morale, come vuole la Commedia stessa, andando a coprire il senso di quella snaturata scelta che hanno compiuto.
35: mi scerpi: mi laceri, mi rovini.
36: pietade: il rivolgersi di Pier della Vigna alla pietà è creata perché propria nell'uomo in opposizione alla forma non pensate che il peccatore ha ora. Nell'Eneide invece Polidoro chiedeva pietà non per la situazione di infelicità e quindi di disperazione umana, ma appoggiandosi all'ordine di parentela e degli affetti.
38: pia: pietosa, indulgente.
39: di serpi: l'ultimo degli animali il più malvagio e abietto.
40: stizzo: pezzo di legno.
41: geme: filtra, trasuda.
42: cigola: stride. La similitudine va a colpire l'idea del lettore proprio nell'immagine del dolore umano in una ferita, poiché nell'uno e nell'altro c'è il grido e il rumore dello scoppiettio del tronco con la fuoriuscita a uno di sangue e nell'altro di linfa.
43: usciva: è il verbo su cui si poggia tutta la similitudine e che va ad accomunare il dolore fisico umano (parole e sangue) al dolore di un albero (gemito e stridore).
44: cima: fuscello, ramoscello.
45: e mi pietrificai come l'uomo angosciato. L'episodio è ripreso dall'Eneide sempre dal ricordo dell'eroe sulla tomba di Polidoro, ma Dante con le sue parole ne appesantisce il valore.
47: lesa: offesa, dal dolore che ti ha provocato, perché in quel mondo per loro quel tronco è diventato il loro corpo.
48: pur: solamente. Con la mia rima: in senso stretto si riferisce al comando di spezzare una fraschetta da quel tronco, ma in carattere di quei tempi e come Dante è abituato, sotto nasconde allegoricamente anche il collegamento all'episodio di Polidoro citato nell'Eneide.
49: in te: contro di te.
50 - 51: ma il punto fuori dal normale fu indurlo ad operare qualcosa che a me stesso pesa.
52 - 53: In cambio di un compenso per quella offesa ravvivando la tua fama.
54: li lece: gli è lecito.
55: viene definito "dolce" perché proprio e vicino all'arte di Pier della Vigna che tanto aveva amato, con "m'adeschi" invece viene analizzata la promessa di Virgilio di rinfrescare la sua memoria sulla Terra, che alletta il peccatore e lo coglie nel punto giusto per indurlo a parlare.
56: voi non gravi: non vi pesi, interrompa senza frutto il vostro andare.
57: perché io possa un poco lasciarmi andare nel parlare.
58: colui: Pier della Vigna, nato a Capua intorno al 1190, presentato a Federico II, divenne notario, poi giudice e in seguito protonotario e logoteta, uno dei principali collaboratori dell'imperatore. Venne coinvolto in una congiura si dice in invidia degli altri cortigiani per la sua rapida ascesa al fianco dell'imperatore. Fu arrestato e poi accecato con un ferro rovente ma non morì subito, ed è infatto tra i suicidi perché si diede la morte ferendosi la testa nella sua prigione a Pisa nel 1249. Le chiavi di cui parla in questo verso sono quelle del cuore dell'imperatore, una che lo apre e l'altra lo chiude. Questo concetto può essere stato ripreso da un epistola del sofferente a Nicola della Rocca, a sua volta ripresa dalla frase biblica di Isaia capitolo XXII.
60: sì soavi: così soavemente, con grande grazia.
61: dal secreto suo: dalla sua intimità, dalla sua confidenza.
63: li sonni e' polsi: il sonno e la salute. Meglio però si potrà capire che la salute è stata persa per sempre invece che ammalata, poiché suicida: quasi in senso temporale, prima perdendo il sonno e poi la vita.
64 - 65 - 66: l'invidia che non distolse ma gli occhi dalla corte imperiale portando alla rovina l'essere umano e innescando vizi. La retorica articolata continua, intonandosi sia con lo stile di Pier della Vigna sia con tutto il concetto qui proposto.
68: Augusto: l'imperatore. Per invidia lo infiammarono e cioè lo portarono in ira con fatti menzogneri.
69: tornaro: si convertirono, divennero.
70 - 71 - 72: questa terzina è una delle tante della Divina Commedia che va a simboleggiare e ad innalzarsi come bandiera della letteratura. È molto simile alla descrizione del peccato fatta con Paolo e Francesca, in questo viene più la capacità del poeta di non solo avvicinarsi il più possibile al valore di quel gesto scellerato ma anche apportare sentimento e un'umanità al pensiero che viene posto al lettore cosicché diventi esempio principe di quella dannazione. Viene riproposto dal dolente il suo peccato e da lui viene accettato come errore dall'ultimo verso della terzina, Dante lo porta alla realtà dei fatti così convincendo chi legge, il "disdegnoso gusto" di voler lasciare un amaro delle opinioni di chi fu disonesto e il creder di "fuggir disdegno" volendo dimenticare il disprezzo di quei vili vengono rotti nell'ultimo verso sbattendo a lui e sbattendoci in faccia la verità di quella violenza insensata e immorale che in questo caso va a creare un peccato più grande dell'ingiuria a lui sottoposta attirando più l'ira di Dio quindi creando un orrore ancora più grande.
73: giura si per la sua parte di maggior valore, ma giura però su qualcosa che non ha più dignità o sembianza d'onore per colpa del suo errore. Nove: perché la sua morte è avvenuta circa cinquant'anni prima quindi recentemente.
74 - 75: ribadisce ancora la sua totale innocenza e fedeltà verso l'imperatore e nonostante lui stesso lo fece arrestare poi processare continua a renderli onore anche nell'Inferno, rendendo così più viva e convincente la sua trama.
77: conforti: riscatti, rivendichi la mia volontà.
79: attese: il soggetto è Virgilio richiamato dal verso successivo. Da ch'el: poiché egli.
80: l'ora: il momento, la linea del discorso.
81: se più ti piace: se ne senti desiderio.
83: satisfaccia: mi soddisfi.
85 - 86: Virgilio parlando a Pier della Vigna "Così se Dante volentieri parlerà della tua verità su nel mondo".
89: nocchi: tronchi nodosi.
90: se tali membra (l'anima) si libereranno mai dal tronco.
91: soffiò: rappresentazione realistica della produzione del suono attraverso l'espirazione dell'aria dalla nostra gola.
92: in cotal voce: in queste parole.
94: feroce: violenta contro se stessa e la giustizia di Dio.
95: disvelta: liberata, fuggita.
96: a la settima foce: al settimo cerchio.
98: la balestra: la scaglia, la getta.
99: gran di spelta: il grano di spelta è una graminacea spontanea e selvatica che perde velocemente i suoi semi.
100: cresce come ramoscello giovane e poi in arbusto selvatico.
101: pascendo: nutrendosi.
102: producono dolore e da quello stesso l'anima grida il proprio soffrire. Le parole usate in queste ultime terzine hanno un potere maggiore d'espressione di quelle usate mediamente atte a dare maggior valore ed emozione al lettore: nel caso di "disvelta" si sente la violenza con la quale l'anima si scatenata dal corpo, per "balestra" il vigore e la rapidità dell'azione e per "fenestra" la pena vissuta in forma di lamenti di dolore dai dannati.
103 - 104: come tutte le altre anime, nel giudizio universale, ci ricongiungeremo con il nostro corpo però non rivestendoci di esso, ma appendendolo al tronco del nostro peccato dov'è rinchiusa l'anima.
105: non potranno riavere il proprio corpo per il fatto stesso che loro non l'hanno voluto e sono consapevoli anche loro che non sarebbe giusto riottenerlo. Inoltre il corpo davanti ai loro occhi sarà la riflessione continua e il rimorso eterno per la violenza commessa.
106: trascineremo: alcuni vogliono leggere anche "strascineremo", questo per dare, grazie all'onomatopea, il senso più che reale di un corpo disteso che viene tratto a forza sulla terra e tra le erbacce.
108: ciascuno al tronco dell'anima sua opprimente; e nel senso antico molesto aveva significato di grave, pesante.
109: Dante ora da vita all'ultimo passaggio di questo Canto per completarlo nella sua immagine poiché aveva accennato solo in parte nei versi 22-23 diverse stranezze, illustrando anche la pena degli scialacquatori che furono violenti contro le proprie cose in collegamento, ma con minor pena, dei suicidi. Attesi: attenti, accorti.
112 - 113 - 114: similmente al cacciatore che sente il cinghiale venire verso il suo apposto, altri cacciatori con loro cani che abbaiano e i cespugli mossi dalla corsa loro.
116: graffiati: dai rovi e dai cespugli.
117: rosta: impedimento, ostacolo formato da quella vegetazione.
118: morte: s'intende la seconda morte e non quella del giudizio universale ma sperano in quella che li porterà nel niente assoluto che però non ha fondamento in Dante, quindi invocano disperatamente una qualcosa che li liberi dal quel dolore.
119: pareva tardar troppo: non correva veloce come l'altro.
120: Lano: si presume sia Ercolano Maconi morto nel 1288, al Pieve dal Toppo come scrive Dante nel verso successivo, in cui i senesi lui compreso, persero contro gli aretini e il Boccaccio racconta che prima di cadere in mano al nemico ma anche nella miseria nera si diede la morte da se. Fu un grande distruttore e disfacitore delle sue proprietà venendo qui punito da Dante come scialacquatore, viene ricordato come persona di bella presenza e direttamente proporzionale alla sua assenza di ingegno. Accorte: significa che non furono così veloci e abili le sue gambe nel fuggire dai suoi nemici alla battaglia dal Toppo.
121: giostre: scontri, battaglie.
122: fallìa la lena: veniva meno il respiro.
123: caduto in cespuglio diventò tutt'uno con esso.
125: cagne: vengono rappresentate allegoricamente come la povertà, la vergogna e i rimorsi. Correnti: veloci, rapide.
126: come veltri: simili solo nell'abilità del correre non in morale.
127: sbranavano e mordevano quello che si aggrovigliò col cespuglio e lo facevano a pezzi come lui ha fatto con le sue cose.
129: sen portar: trascinarono via.
131: piangeva inutilmente attraverso le sue ferite.
133: Iacopo: Giacomo di Sant'Andrea è il nome dello scialacquatore azzannato dalle cagne, morto nel 1239 fu alla corte di Federico II. Due episodi rimasti ai giorni nostri raccontano che una volta in una vacanza in barca sul Brenta, avendo poco con cui passare il tempo si mise a gettare monete in acqua; l'altro ci dice che avendo desiderio di vedere un gran falò, diede fuoco a una sua villa.
134: schermo: riparo, difesa.
137: punte: ferite, lesioni.
138: rigetti con sangue parole di dolore.
140: disonesto: orrendo, sconcio, senza onore.
142: cesto: cespo, un insieme di più piccola flora che nasce ai piedi di un fusto più grande.
143 ... 150: Firenze, che cambiò il suo patrono da Marte a san Giovanni Battista, e per questo che il Dio pagano la perseguiterà con la sua arte, quella della guerra e se non fosse che sull'Arno (precisamente su Ponte Vecchio) ne rimane un pezzo della statua a lui dedicata, i cittadini che la rifondarono dopo che Attila la distrusse (alcuni dicono il re Totila) lo avrebbero fatto inutilmente; lo scrittore stesso segue la superstizione appena accennata ma anche quella della continua difesa di Fiorenza dalla totale distruzione, credenza intensificata anche dalla statua di Marte su Ponte Vecchio, mutilata in gran parte, presente al tempo del poeta, poi andata persa in seguito all'inondazione del 1333.
151: io feci della mia casa il mio patibolo. Alcuni commentatori tentano di dare un nome a questo suicida, senza però aver nessun dato a cui poggiarsi, quindi si dovrà intendere in senso più ampio, come è di uso in Dante, verso la città di natia o in allusione a tutti coloro che odiano la propria vita e perciò la eliminano. Gibetto: forca, ripreso dal francese "gibet".
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